10.8.20

NOTE DAL SENTIERO



Il viandante audace è colui che assapora quella magnificenza spirituale percepita solo da chi percorre i sentieri delle colline toscane senza scuole di pensiero in testa e senza mappe in tasca.
Toscana dai cortei di solenni cipressi, ulivi contorti, succose ciliegie inviolabili, fichi incolti, viti selvatiche assopite sulle siepi.
E all'imbrunire, lentamente il profondo clamore delle campane della chiesa svanisce e dal bosco si levano le note inquietanti delle creature notturne.





1.8.20

ROMENA - Casentino



Il Castello di Romena nella descrizione della viaggiatrice e scrittrice inglese Ella Noyes, (“The Casentino and Its Story” 1905) che nei primi anni del ‘900 ha attraversato il Casentino a cavallo con sua sorella pittrice:

"Di tutte le roccaforti del Casentino, Romena ha l'aspetto più tragico. Le torri, colpite dalle avversità, sollevandosi sopra le terrazze aride che circondano la collina sottostante, sembrano narrare non del lento decadimento del tempo, ma di qualche improvvisa distruzione caduta su di loro per i loro peccati.

È come se il calore dei fuochi illeciti in cui Mastro Adamo ha coniato i falsi fiorini per i Conti Guidi avesse bruciato le pietre del castello.

Nei giorni di tempesta, le nuvole che rotolano, sono lanciate dal riflesso di un luccichio invisibile sconosciuto e nel crepuscolo serale, quando il cielo si accelera in una bellezza di rosa, e le colline ad est sono calde e dorate, Romena diventa scura, solitaria; le torri imbronciate riflettono appena lo splendore occidentale e non illuminate da alcun raggio di candela all'interno. "

Dante Alighieri, durante il suo esilio avrebbe soggiornato al castello e si riferisce specificamente a Romena nel canto XXX della Divina Commedia quando fa parlare Mastro Adamo il falsificatore delle monete d’oro. Si ritiene che proprio a Romena il poeta abbia preso ispirazione per l’Inferno osservando i carcerati che con la pena maggiore venivano calati più in basso possibile. 









OMOMORTO a ROMENA




Il Castello di Romena porta con sé un sinistro promemoria dantesco. 
Sulla strada della Consuma in direzione di Poppi incontriamo un podere, si trova in alto a sinistra: davanti di alzano degli arbusti attorcigliati. Si chiama Uom Morto, o Omomorto. Se si sale dietro la casa, si arriva sulle tracce della vecchia via e seguendola per circa un chilometro si incontra un altro sentiero in direzione di Stia: qui troviamo un mucchio di pietre, la Macia dell'Uom Morto. Si dice che questo monumento rozzo segni il punto in cui un criminale fu giustiziato.
Ogni passante, o per compassione o per qualche sentimento religioso, o forse per una superstizione che allontani la sfortuna malvagia, lanciava una pietra sul mucchio. Il morto, così commemorato sulla solitaria collina, ha trovato un'altra immortalità. Egli altro non era che Mastro Adamo, il falsificatore di Romena.  (Dante Alighieri, Divina Commedia Inferno XXX, vv. 46-90). Le pietre sono ancora visibili. I contadini raccontano che i loro nonni hanno sentito tutto questo da altro generazioni. 




29.6.20

PRATOMAGNO



    Il Pratomangno, dal punto di vista geologico, ha avuto origine nel periodo oligocenico fra i 35 e 23 milioni di anni fa. Costituisce il crinale spartiacque tra la vallata del Casentino e il Valdarno superiore.
Sulla vetta più alta, di mt. 1592 s.l.m. è stata posta nel 1928 una croce in ferro alta oltre 20 metri che domina tutta la montagna ed è visibile anche dalle montagne che circondano le due vallate adiacenti.
Oltre alla croce, sulla cima della montagna, una lapide commemorativa ricorda il pilota australiano Herbert John Louis Hinkler che qui si schiantò durante un tentativo di viaggio dall'Inghilterra all'Australia. Il grande prato che delimita in alto il massiccio, può essere facilmente percorso in cresta tramite sentieri che attraversano pascoli con animali allo stato brado e che si snodano tra salite e discese circondati dalla magnificenza delle vallate e montagne all'orizzonte. Costituiva il passaggio per la transumanza degli animali che dal piccolo borgo di Raggiolo in Casentino attraversavano la montagna verso Loro Ciuffenna in Valdarno per recarsi in Maremma.
Secondo la leggenda potrebbe esserci passato anche Annibale con le sue truppe nel trasferimento da Fiesole ad Arezzo durante la seconda guerra punica. 




   






Indi la valle, come 'l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento, 

sì che 'l pregno aere in acqua si converse; 
la pioggia cadde e a' fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse; 
                          Dante. Divina Commedia Purgatorio canto VI. v. 116









28.5.20

LUCCHIO




Lucchio nelle vicinanze dell'Appennino Pistoiese è un antichissimo borgo della Valdilima.
Era Castello di confine della Repubblica di Lucca e di conseguenza in costante allarme per gli attacchi da parte della facoltosa Repubblica di Firenze. Per tale motivo gli abitanti svilupparono una radicata avversione al pagamento delle tasse, favoriti dalla loro altitudine a circa 670 metri e arroccati sulla montagna.
E' risaputo che, o per la sua posizione, o per il fatto che era un borgo sentinella e avamposto militare, fu esentato dal dovere di pagare una quota al tesoriere di Lucca.
Nel quindicesimo secolo, Guasparo Da Stazzema, Castellano di Lucchio, oltraggioso e audace con forte attrazione per le belle ragazze, era disposto a concedere la fortezza di Lucchio ai fiorentini e mutarsi in traditore della sua patria e del suo giuramento. Quando gli abitanti di Lucchio parlarono tra di loro di questo tradimento, che doveva accadere una certa notte, due belle donzelle, Anastatia di Fiore detta Tasia e Lucia di Martino del vicino castello Vico Pancellorum, ne vennero a conoscenza. Decisero quindi di usare il loro potere sul cuore suscettibile del Governatore traditore di Lucchio.
I vecchi cronisti non ci dicono come queste due devote damigelle, che partirono dal castello di Vico Pancellorum, situato nella montagna davanti a Lucchio, attraversarono la valle profonda del Lima, o come si avvicinarono al castello del Governatore. Possiamo assumere ragionevolmente che andarono da sole, travestite, attraversando il vecchio ponte. Salirono le altezze perpendicolari all’ombra del tramonto, consapevoli della propria virtù e della loro bellezza.
Sotto le mura del castello intonarono canzoni lamentose di irresistibile fascino e risonanza tali da attirare l'attenzione della guarnigione fra cui il Capitano, sempre pronto alla seduzione della voce femminile. Furono invitate alla sua mensa, presumibilmente arricchita con festeggiamenti e danze.
Ciò che sappiamo è che il Capitano di Lucchio dimenticò il suo appuntamento con i fiorentini. Al mattino fu trovato imbavagliato e legato alle colonne del letto consolare senza le chiavi del castello. Il Traditore non fu in grado di introdurre nella Fortezza gli accordati nemici.
Tasia e Lucia prima dell’alba erano di ritorno a casa propria. Lucchio rimane tuttora in provincia di Lucca.
L'origine del Castello di Lucchio è incerta: forse, come il villaggio vicino di Limano, può risalire all'età della Contessa Matilde di Canossa, o come indicherebbero i nomi di altri villaggi della valle ('Vico Pancellorum' o 'Panulegium') potrebbe avere la sua origine nell'era romana o addirittura etrusca.
La Dea etrusca Feronia ebbe un tempio presso il castello di Lucchio - forse da Luco Foresta o Lucus Feronia.
Successivamente può essere stata una fortificazione di famiglie feudali della zona, proprio per la sua posizione dominante sulla strada di comunicazione che segue il corso del fiume Lima.
L'unica certezza è che nel quattordicesimo secolo Lucca trasformò Lucchio in una fortezza militare per controllare i confini verso Pistoia.
Quando i fiorentini conquistarono parte della zona, l'importanza strategica del castello diminuì e fu abbandonato. Tuttora il rudere domina la vallata e la sua posizione è una delle più scenografiche tra tutte le fortezze medievali della Toscana. Le sue pareti sono scavate nella roccia; gli edifici di pietra che formano il borgo sottostante si affacciano su vicoli stretti come un'estensione della montagna, eternamente spazzata dai venti.






Le rovine del castello sono visibili, il paesaggio incomparabile che può essere ammirato è degno degli sforzi fatti dal viandante per arrivare alla cima delle rocce.





 . 



24.5.20

EDICOLE VOTIVE E TABERNACOLI IN TOSCANA




      Le edicole votive o tabernacoli raccontano la storia della devozione popolare.
Tutta la campagna toscana è cosparsa di queste testimonianze della spiritualità contadina.
Di origine antichissima, erano già presenti in epoca Greca e poi Romana.
La loro ubicazione spesso in corrispondenza degli incroci dei viottoli potrebbe derivare da una pratica religiosa diffusa nel mondo pagano che dedicava a Mercurio i punti d’incontro di tre vie. Presso i latini l’edicola era il fondo del tempio o la nicchia o tabernacolo in cui era custodita la statua del Dio e si usava anche per riporvi le immagini degli antenati, i busti di famiglia e le divinità tutelari della casa. Con l’editto di Teodosio I nel 397 d.C questa pratica fu maggiormente sostenuta, furono però sostituiti i temi di adorazione pagana con quella cristiana.
Esempi di arte minore, le troviamo nelle nostre strade di campagna sotto diverse forme, agli incroci come agli angoli delle case e raffigurano principalmente la Madonna o i santi protettori del bestiame oppure si tratta di croci lignee con un basamento in cemento. Negli incroci rischiaravano la notte con i lumini a favore dei viandanti, oppure venivano eretti per ringraziamento da uno scampato pericolo quale siccità o carestia o epidemia o a protezione dei raccolti o del bestiame.
Nelle strade i tabernacoli sono a forma di edicola mentre possono essere inseriti anche più semplicemente nelle case coloniche o nei rustici, in rudimentali nicchiette ricavate dentro lo spessore dei muri. Molte sono in completo abbandono e rischiano anche di cadere ma notando i fiori che sono apposti (per la maggior parte di plastica) su alcune, si deduce che sono ancora oggetto di qualche tipo di devozione.

















21.5.20

Terminus, il guardiano dei confini dei campi

Terminus era una divinità romana che presiedeva i confini dei campi, ovvero una pietra, sobrio emblema della stabilità. Quando gli dei si ritirarono dal Campidoglio e da Giove, Terminus rimase al suo posto senza muoversi. È rappresentato con la testa di un uomo e con la parte inferiore a forma di paletto affilato da fissare in terra.
Si dice che il suo culto sia stato istituito dal re Numa Pompilio, il quale ordinò che tutti dovevano contrassegnare i confini della proprietà terriera con pietre consacrate a Giove: presso queste pietre di confine, durante le festività denominate Terminalia, venivano offerti sacrifici. Il Terminus dello stato romano originariamente si trovava tra la quinta e sesta pietra miliare sulla strada verso Laurentum, vicino a un luogo chiamato Festi.
Un altro Terminus pubblico si trovava nel tempio di Giove nel Campidoglio. Si dice che quando questo tempio fu fondato tutti gli dei dovettero cedere posto a Giove e a Giunone, con l’eccezione di Terminus e Yuventus, i cui santuari gli auguri non permisero di rimuovere. Questo fu interpretato come un presagio che lo stato romano sarebbe rimasto sempre immutato e giovane, e le due divinità furono lasciate all’interno del tempio. E’ probabile comunque che il dio Terminus non sia altro che Giove stesso nella funzione di protettore dei confini. Lattanzio, scrittore di fede cristiana che considerava i pagani adoratori di molte divinità di poco conto, afferma che il dio Terminus è uno di quelle, perché rozzo e scortese. È un peccato che Lattanzio non abbia potuto vivere nei tempi contemporanei, quando avrebbe potuto vedere una schiera di santi cristiani di piccole dimensioni. Lattanzio definisce inoltre Terminus come la roccia immobile del Campidoglio.
E cosa posso dire delle persone che adorano tali ceppi e pietre (lapides et stipites) a parte il fatto che loro stessi sono ceppi e pietre ? "(Advertus Gentes, libro i., cap. XX).
Durante le Terminalia che si celebravano il 23 febbraio i proprietari dei campi confinanti si radunavano intorno alla pietra terminale loro comune e innalzavano le loro offerte incruente cioè di segale, miele, vino ecc. e poi banchettavano allegramente.






Moderni cippi di confine


19.5.20

APUANE - Monte Tambura e Via Vandelli da Resceto



ITINERARIO: Resceto - Via Vandelli - Passo della Focolaccia - 
Monte Tambura - Via Vandelli - Resceto
LUNGHEZZA: 16 km
DISLIVELLO IN SALITA: 1500 m


    Lasciata l’auto a Resceto (482 m) nel parcheggio al termine del paese (vi troviamo anche una fontana), seguiamo la strada asfaltata (CAI 35) che ci porterà a percorrere la Via Vandelli, via che porta il nome dell’abate nonché ingegnere che la progettò. Costruita tra il 1738 ed il 1752, il suo fine era quello di consentire al ducato di Modena di avere uno sbocco marittimo, attraversando Appennini ed Apuane per affacciarsi finalmente sulle acque del litorale di Massa dopo 140 km. Dopo una breve tratto abbandoniamo la Vandelli e prendiamo una antica "via di lizza", utilizzata dai cavatori per portare a valle il marmo estratto dalle cave soprastanti; la “lizzatura”, dai tempi degli egizi fin quasi ad oggi, permetteva di trasportare il blocco di marmo su una slitta (la “lizza” appunto) che rotolava, trattenuta dagli operai, su travi di legno. La via, ben segnalata (CAI 166), si arrampica fino a raggiungere, con dislivello impegnativo, la strada marmorea che ci condurrà agilmente al Passo della Focolaccia (1648m), valico che divide il Monte Cavallo ed il Monte Tambura nonché osservatorio sulla Garfagnana e, alle nostre spalle, sul Tirreno. Sulla sinistra, sotto la coda del Cavallo e quasi da passare inosservato al cospetto dell’opera dell’uomo che scava mutando le forme delle montagne, sorge, più che centenario,  il bivacco Aronte, il più alto delle Apuane, dedicato all’indovino etrusco poi trasformato dalla leggenda nel gigante che difende le montagne dai nemici del mare. Seguiamo quindi il crinale nord ovest proprio del Monte Tambura, con vista su entrambi i versanti, e raggiungiamo la vetta (1891 m), seconda solo ai 1947 m del vicino Monte Pisanino ed anch’essa privilegiato punto di osservazione. Sulla croce, bandierine di preghiera tibetane, come ormai su diverse vette delle Apuane, e libro di vetta. Continuiamo a percorrere la cresta e scendiamo al Passo della Tambura (1620 m), ove riprendiamo la Via Vandelli, questa volta in discesa; lungo il percorso un pianoro, la Finestra Vandelli, ricavato nella roccia per mercanti, viandanti e carrozze, per noi punto panoramico sull’Alto di Sella. Scendendo, ai margini della Via, i fori che sostenevano i pali ai cui venivano appesi i briganti giustiziati. Dopo non pochi tornanti, ed altri 900m di dislivello, saremo di nuovo a Resceto. 

Sul CAI 166, lasciata la Via Vandelli

La Garfagnana dal Passo della Focolaccia

La costa tirrenica dal Passo della Focolaccia

Vetta del Monte Tambura


Libro di vetta


"località Le Teste"